Con un’operazione subacquea senza precedenti la nostra Marina Militare ha recuperato dal fondo del Canale di Sicilia l’intero relitto della peggior tragedia navale accaduta riguardante i migranti.

di Romano Barluzzi. Immagini repertorio MMI Marina Militare Italiana

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Il 18 aprile dello scorso 2015 segna una data tragica nell’epopea del fenomeno migranti. I soli 28 sopravvissuti a quello che poteva in un primo momento essere sembrato l’ennesimo naufragio nel Canale di Sicilia ne descrissero invece le inusitate proporzioni reali e il balletto delle cifre testimoniate fece oscillare il pallottoliere di mastro beccaio in una fascia da primato della disperazione: tra i 700 e i 1000 morti. La più grave tragedia in tema migranti finora accaduta in questo mare di cadaveri che il Mediterraneo sta diventando. La più grave tra quelle note, s’intende. Ma il seguito di questa terribile vicenda è ancor più degno di un romanzo di Clive Cusler. Il Ministero della Difesa istituì una taskforce, sotto comando della Marina Militare, che cominciò – mantenendo un profilo di stretta riservatezza – l’indagine sul relitto, arrestatosi a circa 370 metri di profondità. Dalla localizzazione in base al punto d’affondamento – circa 100 miglia dalla Sicilia e 40 dalla Libia – fino all’individuazione e a tutto lo studio preliminare del relitto, già dalle indiscrezioni che trapelavano a fine 2015 fu presto chiaro che il progetto era finalizzato al recupero conservativo dell’intero peschereccio affondato. Pochi giorni or sono quel recupero è stato portato a termine con successo dalla nave appoggio Ievoli Ivory, coadiuvata da diverse unità della nostra Marina Militare. E rappresenta con ogni probabilità un evento che tecnicamente parlando, dal punto di vista subacqueo, dev’essere stato svolto in modalità davvero particolari, qualcosa comunque di estremamente avanzato per la tecnologia e le conoscenze impiegate nelle operazioni… Ciò che appare chiaro è che l’intero scafo è stato “agganciato”, sollevato al punto da scollarlo dal fondale in cui giaceva da più di un anno e issato fino in superficie. Ora, realizzare anche già soltanto i presupposti per una esecuzione del genere a quella profondità pone non pochi quesiti. E’ un genere di operazione che deve aver richiesto direttamente sul fondo particolari procedure manipolative, non solo perlustrative. E si sa che a quelle quote è ben improbabile si sia fatto ricorso alla presenza umana diretta, possibile tuttalpiù con personale in scafandro rigido, le cui potenzialità manipolatorie sono però piuttosto limitate. Più probabilmente c’è stato – in sostituzione o in abbinamento – un impiego massiccio di tecnologia Rov (Remoted operative vehicle, veicoli a controllo remoto filoguidati), non soltanto per la documentazione completa in immagini videofotografiche ma in tutte le fasi più esecutive, dal rilevamento alla scoperta, fino all’assistenza del posizionamento della struttura che ha materialmente agganciato il relitto, anch’essa manovrata in remoto, con ogni probabilità sotto stretto monitoraggio visivo di altri Rov. A sua volta questa struttura è apparsa come una speciale gru con all’estremità calata sul fondo un possente rettangolo metallico che ha come “circondato” lo scafo da recuperare, per poi infilargli sotto la chiglia delle speciali benne, così da creare una sorta di gondola di contenimento che racchiudesse l’intero peschereccio. Il quale si dice anche abbia dato segni di cedimento durante l’operazione, malgrado tutte le cautele sicuramente impiegate nell’intera risalita. Però il risultato è stato ottenuto – anche se è presumibile ci sia stata una dispersione in mare dei corpi non stimabile con esattezza – e l’intero peschereccio è ora sistemato in una struttura a terra, a sua volta ultra-specializzata. Si parla di una vera e propria “cittadella delle operazioni”, allestita dalla Marina Militare a Melilli, nella zona di Augusta, con impianti in grado di conservare l’intero battello congelato in azoto liquido per mantenere ogni reperto fissato nella situazione in cui è venuto a trovarsi sul fondo del mare. Lo scopo prioritario è indubbiamente quello di permettere ogni genere d’indagine giudiziaria, compresi i test del DNA per l’identificazione dei corpi. Una squadra di non meno di una decina di esperti medico legali e anatomopatologi forensi provenienti dalle migliori università è già al lavoro sul posto insieme ai Vigili del Fuoco e al personale incaricato di mansioni d’inchiesta sulle responsabilità penali della vicenda. Ricordiamo infatti che tra i sopravvissuti furono arrestati i due con rispettive mansioni di “capitano” e di “mozzo”, attualmente sotto processo. Vi risparmiamo volutamente qualsiasi descrizione – peraltro già abbondantemente disponibile in altra stampa che non s’è fatta scrupoli a calcare la mano sui particolari più macabri delle prime ispezioni all’interno del relitto – perché ci sembra più consono al nostro spirito di subacquei e amanti del mare. Dopotutto, per un marinaio non c’è miglior tomba che il mare stesso. Perciò i luoghi dei naufragi assurgono implicitamente al ruolo di sacrario naturale. In quella stiva si dice che gli aguzzini del traffico criminale dei disperati che noi chiamiamo eufemisticamente “migranti” avessero stipato qualcosa come duecento bambini. Dunque, premessa la nostra condivisione del massimo rispetto per l’encomiabile lavoro della Marina Militare e i doveri d’indagine da assolvere, e che non ci appartengono le solite polemiche già montanti sul web circa i dubbi sui motivi di cotanto dispiegamento di mezzi e risorse, piuttosto vien da chiedersi chi siamo noi per andare a sciogliere quegli ultimi abbracci di madri e figli che finirono così i loro attimi sul fondo del mare?

NOTA In alcune delle immagini a marchio Marina Militare che pubblichiamo, già rilanciate da numerose testate di quotidiani e altri organi d’informazione, si vedono sommozzatori in tenuta da immersione lavorativa non scafandrata, dunque autonoma o con fuoriuscita vincolata da campana o da superficie. Ma è presumibile che tali immersioni siano state fatte e riprese durante la risalita del relitto (per controllarne meglio di persona e in maniera più capillare la tenuta delle strutture fino in superficie), cosa deducibile anche dalla luminosità media dei dintorni dell’inquadratura che non è certo quella esistente a quasi 400 metri di profondità. Una puntualizzazione di questo genere non compare in nessun organo d’informazione tra quelli che hanno voluto rilanciare finora la notizia, preferendo in molti casi indulgere nei dettagli più raccapriccianti del racconto circa i contenuti della stiva.

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