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In configurazione tecnica su un magnifico e un po’ insolito sito d’immersione: il Traliccio di Capri. Forse ancora nemmeno troppo noto. Provare per credere!

di Claudio Budrio Butteroni.

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Era il 21 aprile quando il Bikini Diving pubblicava sulla propria pagina Facebook la programmazione estiva per le immersioni tecniche al “Traliccio di Capri”.

Pensai subito che quella data di metà settembre potesse rappresentare la giusta opportunità per inserire nel mio repertorio il Traliccio di Punta Carena.

Complice il maltempo incontrato in Sicilia – nonché una moglie amabile e accondiscendente ad assecondare le mie debolezze – anticipo il rientro dalle ferie di un paio di giorni, giusto in tempo per non fallire il rendez-vous e sono a Marina di Stabia in perfetto orario.

La partenza è fissata per le 9:30. Il gommone del Bikini Diving, spinto da un possente 250 cavalli, non sembra risentire minimamente del peso delle quattro attrezzature complete e delle persone a bordo.
Fende le onde di un mare reso leggermente increspato dai natanti dei diportisti, coprendo in poco meno di un’ora le venti miglia che separano il porto di Marina di Stabia da Punta Carena a Capri.

Il traliccio di Capri è una vecchia struttura che sosteneva un radiofaro posto in prossimità di Punta Carena. Nell’estate del 1962, a seguito di una tromba d’aria abbattutasi sull’isola, cadde in mare e affondò alle pendici della parete, su un fondale di circa cinquanta metri.

Dopo un minuzioso briefing di Pasquale Manzi ci vestiamo e ci tuffiamo in acqua, proprio in corrispondenza del piedistallo di posa del traliccio che ancora s’intravede.

Ci lasciamo subito sprofondare nel blu; l’ancoraggio del gommone in questo punto è impossibile a causa dell’intenso traffico delle imbarcazioni. Tuttavia la parete di roccia che s’inabissa a pochi metri da noi costituisce un valido riferimento e supporto.

Giunti attorno ai quaranta metri di profondità intravediamo la sagoma del traliccio appoggiato sul fondo di sabbia bianca, piegato in due dalla furia del vento o dall’impatto con il fondale.

Giusto il tempo di accendere illuminatori e flash e siamo lì

Le dimensioni del rottame non sono certo quelle di un gigantesco traliccio di alta tensione, ma è tutta un’esplosione di colori: gorgonie gialle, gorgonie rosse, gorgonie multicromatiche, claveline, tunicati e soprattutto una nuvola di anthias che avvolgono l’intero spettacolare sito d’immersione.

Restiamo sbalorditi; percorriamo senza quasi accorgercene la struttura per tutta la sua lunghezza, fino a giungere al suo estremo posto attorno ai sessantadue metri di profondità, dove un calamaro ha ben pensato di deporre la propria ovatura, per poi ritornare sui nostri passi fino alle pendici della parete.

Una ventina di minuti sono già volati. Seguendo le indicazioni forniteci in corso di briefing, ci lasciamo scorrere la parete alla nostra destra e – mantenendo una profondità attorno ai quarantacinque metri – pinneggiamo per alcuni minuti fino a raggiungere un grosso antro sommerso. La volta è disseminata di parazoanthus e di aragoste. Entrando nella parte più buia possiamo vedere una nutrita colonia di gamberi e delle musdee che approfittano della luce dei nostri illuminatori per cibarsi dei coinquilini. Usciti dalla grotta, riprendiamo il percorso abbandonato sempre con la parete alla nostra destra riducendo sensibilmente la profondità ed avvicinandoci alle quote indicate per le prime tappe decompressive. Purtroppo la parete, al di sopra dei venti metri di profondità, non offre particolari attrazioni ma è ricca di tane e piccoli anfratti risultando comunque utile per trascorrere il tempo durante le lunghe soste della decompressione.

Giunti in prossimità di una piccola condotta idrica sommersa comprendiamo di aver raggiunto il punto di  incontro concordato con Pasquale, posto in una caletta dietro il faro di Punta Carena.

Dispieghiamo – come concordato in precedenza – un palloncino per segnalare la nostra presenza all’imbarcazione di supporto che avvistiamo subito dopo ormeggiata a pochi metri da noi. Gli ultimi minuti di sosta a sei metri scorrono veloci grazie all’utilizzo di ossigeno puro come desaturante.

Tornati sul gommone abbiamo giusto il tempo di togliere le maschere per guardarci negli occhi oramai fuori dalle orbite e complimentarci per la bellezza del sito e per la minuziosità delle indicazioni ricevute nel briefing pre-immersione. Poi i motori tornano a ruggire conducendoci sulla via del rientro.

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