«Raggiungiamo il salone di prima classe riconoscibile per le colonnine che lo caratterizzano; al centro la splendida scalinata in legno ha lasciato posto a una voragine che ci richiama verso i ponti sottostanti e la sala macchine…» Dal racconto dell’autore emozioni a non finire in questa discesa sul leggendario Baron Gautsch.

Di Claudio Budrio Butteroni. Foto Giuseppe Pugliese

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Rientro a Roma dopo due settimane di vacanza in Croazia. Questa volta ho portato con me il mio fidato JJ con attrezzatura di corredo. Mia moglie, con mio gran stupore, ha studiato un itinerario mare/montagna, previa attenta ricerca sui più bei punti d’immersione dell’Adriatico orientale.
Partenza da Roma, tappa obbligata a Padova per rifornimento di Softline e poi via verso Trieste e il confine Sloveno… quindi l’Istria. Il nostro punto di riferimento per i primi tre giorni di vacanza sarà la città di Medulin, piccolo villaggio di pescatori sacrificato al turismo di massa. Il nostro soggiorno è contingentato, quindi contatto immediatamente il Rovinj Sub, prendo qualche accordo e la mattina dopo alle ore 8:00 sono già in macchina diretto a Rovigno. I 20 chilometri di autostrada che ci separano vengono macinati in pochi minuti e arrivo in un battibaleno al diving situato proprio all’entrata di Rovigno su un appezzamento di terreno affacciato sul mare con molo privato, parcheggio e club-house su due livelli con reception, spogliatoio, docce e magazzino. La struttura è gestita in ambito familiare, ma con grande professionalità; è dotata di ampio giardino arredato con vasche per il risciacquo, un grande tavolo, panche e alberi di vario genere ed è a completa disposizione dei subacquei e degli accompagnatori che possono trascorrere qui la giornata usufruendo dei servizi. Dei conigli nani saltellano ovunque. Mi accoglie Roberto il quale mi presenta brevemente la struttura e, forse impensierito dalla presenza del mio reb, le regole per l’immersione sul Baron: profondità massima 35 metri, penetrazione solo nel primo ponte, tempo di fondo 20 minuti. Certo un relitto del genere a una profondità così accessibile meriterebbe almeno 60 minuti di fondo e un’esplorazione capillare… ma quando viaggi solo devi accettare lo scotto di doverti adeguare al gruppo che trovi.
Il Baron Gautsch era un lussuoso piroscafo appartenente al Lloyd Austriaco. Era arredato in stile liberty con sovrastrutture in legno pregiato e seguiva la rotta tra Lussingrande e Trieste. Fu costruito in Scozia nel 1908 e prende il nome dall’uomo politico e più volte primo ministro austriaco, barone Paul Gautsch von Frankenthurn. Particolarmente lussuoso era il salone di prima classe, arredato con stupendi broccati e contraddistinto da una serie di colonne adornate di stucchi e capitelli, che si sviluppava attorno a un ampio scalone centrale. Durante la Grande Guerra il piroscafo era stato requisito dalla Marina Militare austriaca per il trasporto delle truppe dalla Dalmazia a Trieste.

Il suo primo viaggio, dopo essere tornato a fare il piroscafo passeggeri sotto un comando civile, fu anche l’ultimo. Alle ore 11:00 del 13 agosto 1914 il Baron Gautsch salpava dal porto di Lussingrande, diretto verso Trieste, dov’era previsto l’arrivo per le ore 18:00 con un numero imprecisato di passeggeri (tra i 280 e i 350, tra cui molti militari in trasferimento che viaggiavano senza biglietto). La nave doveva mantenersi al largo per evitare una zona di mare minata dalla stessa Marina Austriaca a difesa del porto di Pola; tuttavia, nei pressi di Rovigno, entrò nel tratto di mare interdetto, nonostante i segnali di allarme ricevuti dal posamine Basilisk. Colpito da una mina alle 15:45 sul lato di sinistra, affondò in pochissimi minuti davanti a Rovigno, a 7 miglia dall’arcipelago di Brioni in Istria. Vennero salvati solo 178 passeggeri, mentre il numero delle vittime, tra cui moltissime donne e bambini, rimane imprecisato. Pesanti accuse caddero sull’equipaggio, perché molte scialuppe non erano state calate in mare e i salvagente erano chiusi a chiave per evitare che i passeggeri di terza classe li utilizzassero come cuscini. Oggi si trova su un fondale a circa 40 metri di profondità, in perfetto assetto di navigazione e con la prua orientata nella direzione che aveva prima del naufragio.
Ci imbarchiamo dal molo antistante il diving e subito noto sulla rastrelliera della barca la presenza di quattro bibombola in configurazione hogarthiana con otto decompressive. Nel mio cuore si riaccende la speranza, ma l’illusione dura poco. Giusto il tempo del briefing per capire che i quattro fortunati sono un gruppo di ragazzi del nord Italia, abituali frequentatori del diving e che quindi godono della massima autonomia. Loro si immergeranno per primi; hanno programmato l’esplorazione delle stive e della sala macchine. A me, perfetto sconosciuto, spetta il tour ricreativo. Dopo la vestizione e il rituale check macchina, passo da gigante e via; ho letto che nelle giornate di acqua limpida la maestosità di questo relitto è visibile sin dai primi metri. Evidentemente è la mia giornata “no”, oggi la visibilità non è delle migliori. Scendiamo sulla cima d’ormeggio che ci conduce sul ponte in corrispondenza dell’argano di governo delle ancore. Da qui risaliamo di qualche metro e, passando attraverso un ampio finestrone, ci introduciamo nel ponte di prima classe. Percorriamo il lato di sinistra dell’imbarcazione in direzione della poppa; sopra di noi vi è sempre una via di risalita diretta, dato che il solaio è oramai collassato. Sotto di noi i vecchi pavimenti in tek in alcuni punti sono ancora perfettamente riconoscibili, mentre in altri lasciano intravedere il livello sottostante. Raggiungiamo il salone di prima classe riconoscibile per le colonnine che lo caratterizzano; al centro la splendida scalinata in legno ha lasciato posto a una voragine che ci richiama verso i ponti sottostanti e la sala macchine. Il nostro programma prevede invece l’inversione di marcia e il rientro lungo il lato di destra. Giunti in corrispondenza della fine del camminamento, usciamo da un foro situato sulla nostra testa che ci conduce sul ponte di coperta, in corrispondenza delle gruette di varo delle scialuppe che segnalano la fine dell’immersione. Sono passati esattamente 20 minuti. Mentre sto per iniziare mestamente la risalita, Roberto mi ferma. Lui deve andare a recuperare dell’attrezzatura smarrita il giorno prima da alcuni clienti e mi dà l’opportunità di prolungare la mia permanenza sul fondo. Gironzolo sulla prua in prossimità dell’argano delle ancore, poi mi spingo fuori dal relitto verso la prua per vedere le ancore, ancora posizionate nell’occhio di cubia. Il tagliamare perfettamente verticale, tipico per le navi dell’epoca, incute soggezione. Mi allontano qualche metro e mi volto. Il colpo d’occhio, nonostante la sospensione sollevata da alcune pinne maldestre, è notevole. Il grosso albero ripiegato sul ponte superiore e le due file di finestroni dei due ponti che si affacciano direttamente sul lato di prua, rendono perfettamente l’idea di quella che doveva essere la maestosità del piroscafo. Ritorno verso il ponte dove un grosso scorfano mi guarda incuriosito lasciandosi avvicinare. Una tiratina di pinne mi desta dall’estasi nella quale ero caduto. La ricerca è finita e Roberto mi richiama all’ordine verso il pedagno di risalita. La poca deco accumulata si assottiglia man mano che mi avvicino alla superficie e quella rimasta si esaurisce in pochi minuti nella tappa dei sei metri.
Rientrato al diving mi aspetta il sorriso di mia moglie e l’abbraccio di Edoardo che intanto ha familiarizzato con i conigli e gli altri bambini ospiti del diving. Risciacquo l’attrezzatura, approfitto del centro di ricarica per un rabbocco delle bombole del mio reb, e poi via alla scoperta della città di Rovigno.

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