Questo è il dilemma. Siamo alla vigilia del referendum forse più celebre e bistrattato tra i subacquei e anche noi dobbiamo dire la nostra. Ma deluderà parecchi. O forse no.

di Romano Barluzzi

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Chiariamolo subito: siamo per il SI. Ma non sentiamo, in questo caso, di aver molto da spartire con un certo fronte ambientalista; né con il suo opposto che, in favor d’industria e di affarismi vari, vorrebbe che si votasse NO o addirittura che al voto non ci si andasse proprio.
Le nostre ragioni sono diverse e derivano dall’aver sentito, da un paio di mesi a questa parte, le voci e le opinioni di tanti, ma davvero tanti, subacquei. Appassionati, ricreativi, sportivi, tecnici e lavoratori. Grandi campioni, personaggi e sub della domenica. E ciò che ci ha stupito non sta nella disparità delle opinioni bensì nel genere d’informazione che – ancora una volta – si è sviluppata intorno alla questione. Di questa siamo saturi e nauseati perché raramente ha saputo offrire con così continuativa insistenza il peggio di sé. Si è cominciato con la pretesa di voler chiarire ciò che chiaro non è: e qualcuno ha pubblicato gli stralci dei periodi di testo che andrebbero aboliti dalla normativa attualmente in vigore in caso vincessero i SI. Per scoprire che, non solo – come in tutti i referendum abrogativi – “si dice SI per dire NO, cioè per abolire; e si dice NO per dire SI, cioè mantenere”, riconfermando che chi ha inventato l’istituto referendario abrogativo con queste modalità avrebbe avuto bisogno di un consulente sulla comunicazione bravo per davvero; ma soprattutto che la poca chiarezza si trasmette sul senso finale di qualsiasi risultato, in modo che in definitiva il dubbio sorge spontaneo già prima: “ma cambierà davvero qualcosa in base a ciò che ho votato rispetto a ciò che avrei voluto?”. “Qualunquisti!”, ci grideranno ora addosso chissà quanti benpensanti e radical chic dell’ultimo minuto.
Ma noi, gente di rude metro, ricordiamo che il deprimente spettacolino della disinformazione di massa è entrato subito nel vivo con il balletto delle cifre su quanti – e quando – resterebbero senza lavoro in caso di vittoria dei SI, cioè nel caso che si impedisse il rinnovo delle concessioni per l’estrazione alla loro prossima scadenza legale (e limitatamente agli impianti entro le 12 miglia dalla costa) anziché all’esaurirsi naturale del giacimento: per un noto movimento politico erano “appena” 70 persone, mentre altri dettagliavano all’inizio 6.000, cifra poi nervosamente lievitata fino a oltre 14.000. Capite bene che il punto non è più su chi dica il vero o il falso, bensì su quali dati si basino simili stime. Sparate a casaccio? Giammai! Nessuno osa sospettarlo. E allora perché, salvo qualche rarissima eccezione circolata sul web e ancor meno in tv, di fonti documentali non ne abbiamo vista neanche l’ombra? Andiamo avanti. E’ presto arrivata – in un crescendo di discrepanze pari solo all’incremento del ridicolo – nientemeno che la “guerra delle cozze”! Sapete quelle che crescono attaccate ai piloni delle fondamenta delle piattaforme di estrazione? Ecco, si, proprio quelle. Talmente buone e sane per qualcuno da scommetterci tanto di certificazioni, così stracariche d’inquinanti per altri da accusarle capaci d’ogni nefandezza al solo guardarle. C’è mancato poco – o forse è accaduto ed è sfuggito a noi – che qualcuno si mettesse a declamare la particolare prelibatezza di quei mitili proprio come effetto di dove crescono. E l’apporto energetico che andrebbe perduto con la chiusura degli impianti? Ne vogliamo parlare di come è stato trattato sui grandi media? Chi dice sia di quantità irrisoria, da un lato. Chi dice sia invece addirittura determinante, dall’altro. Agitato come uno spauracchio da quanti si sono messi a paventare un rincaro dei costi per coprire il minor introito, aggravato da chi si è preso la briga di stimare perfino quante “navi gassiere” in più sarebbero transitate nel Mediterraneo per far fronte alla mancanza di ciò che non si sarebbe più estratto qui importandolo dall’altro capo del mondo. Si potrebbe proseguire quasi all’infinito con altrettanti esempi di come i grandi network – salvo le solite rare eccezioni – trovino sempre più comodo cavalcare l’onda del più scontato “opinionismo del nulla” che cercare di fare buona o anche solo normale informazione. Il che contempla anzitutto agevolare gli estremismi di pensiero, istigandoli perfino, che in termini di audience certo ripaga di più. Perché è più facile indurre il pubblico a schierarsi in maniera ideologica che convincerlo a pensare. Se pensa, magari comincia ad accorgersi che l’impatto ambientale delle attività umane sulle – o in prossimità delle – coste non è una faccenda di destra o di sinistra. Ed è una misera strategia, questa, perché uccide la facoltà di acquisire maggiori consapevolezze, di immaginare una terza via, di crederla possibile, di operare per un’altra soluzione. Hai visto mai che potesse diventare “la” soluzione?

Perché – e anche qui ci limitiamo volutamente a un solo esempio – non si è visto più di mezzo rigo speso per qualche possibile congettura da fare intorno a una rivalorizzazione ambientale subacquea di questi impianti, qualora potessero trasformarsi in siti d’interesse naturalistico dopo cessata l’attività estrattiva? Se vogliamo, qualcosa di simile alle ipotesi di “Scuttling” (l’affondamento volontario di naviglio dismesso dai ruoli e bonificato, allo scopo di creare habitat sommersi in zone altrimenti deserte) di cui ci siamo già occupati tante volte qui su Serial Diver. Di ciò che sappia farne la natura abbiamo già esempi accaduti, basti pensare ai resti della piattaforma Paguro diventati uno dei più bei siti d’immersione del Mediterraneo e il più interessante dell’Alto Adriatico. A quante persone, tra cui molti lavoratori subacquei, ridarebbe reddito e per quanto tempo una progettualità del genere? E l’indotto del successivo connesso turismo sostenibile che tipo di risorsa potrebbe rappresentare per un Paese come il nostro?
Ma il fondo vero dell’italica informazione in questa vicenda referendaria l’abbiamo toccato con il rilancio mediatico della spudorata esternazione di certi politici affinché non si andasse per niente a votare: il fronte dei cosiddetti “astensionisti”. Difesi “in punta di diritto” perfino da certi direttori responsabili di prestigiose e blasonate testate giornalistiche di quotidiani, affannatisi a sostenere le ragioni della facoltà di astenersi anziché del diritto/dovere – civico – di votare. Complimenti! Letteralmente come arrampicarsi sugli specchi. Eppure l’hanno fatto. Perfino tacciati di istigazione all’illegalità da parte di qualche giurista e di fior di costituzionalisti. Ma diciamocelo: non è che ci volesse la laurea per intuire che ci fosse qualcosa di strano nell’incitare a disertare l’esercizio referendario, specie quando l’incitamento è arrivato da chi quell’esercizio di massima democraticità lo dovrebbe difendere e sostenere a qualsiasi costo. Magari lo stesso che all’inizio – quando gli faceva comodo – l’aveva promosso. Insomma, in tutta franchezza, una vergognosa scivolata per tanti. Peggio se è stata frutto d’intenzione. Criminale se dettata da qualsivoglia strategia.

Allora diventa fondamentale votare, votare comunque. Andateci, cari amici lettori subacquei, e votate pure ciò di cui in coscienza vi siete convinti, ma non rinunciateci per nulla al mondo.
Noi lo faremo per il SI non per la convinzione che ciò cambi le cose né che lo faccia subito quando magari il referendum è così strutturato proprio perché non venga modificato granché né in un caso di esito né nell’altro; bensì perché crediamo nel suo significato simbolico. Probabilmente l’unico valore che gli resterà davvero, ma può essere questo tutto ciò che abbiamo a disposizione e sarebbe un peccato sprecarlo.
Perché i simboli contano eccome. I simboli veicolano significati, sono messaggi potenti e talvolta è concesso alla voce popolare di rappresentarli: e qui il significato è “vogliamo che questa fase di transizione dalle fonti fossili a quelle rinnovabili acceleri più possibile, a vantaggio di tutti, anziché ristagnare con comoda inerzia per mantenere intoccabili gli interessi di qualcuno o addirittura accrescerne i guadagni”.
Affrancarsi troppo presto dalle fossili costa oggi qualcosa a un po’ di gente? E se affrancarsene troppo tardi domani costasse di più a tutti quanti gli altri?
Quando questi ragni d’acciaio in mezzo al mare saranno diventati anch’essi “archeologia industriale” sommersa, perché questo sarà comunque prima o dopo il loro destino al pari dei tanti relitti metallici perduti sott’acqua, auguriamoci di essere ancora lì a farci immersioni, a poter ancora incontrare qualcuna di quelle forme di vita in grado di donarci meraviglia e stupore e a chiederci “ma perché abbiamo aspettato tanto quando avremmo potuto farlo prima?”

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