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Immersione rapida e indolore nel turchino, su un relitto sorprendente. Nel bel mezzo di un mare dai colori e dalla vita straordinari.

A cura di Romano Barluzzi. Foto Emanuele Vitale. Video Chiara Scrigner.

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«Perché il mare è salato?» Appena senti attribuire a un relitto un soprannome del genere, “nave del sale”, rischia di apparirti come una risposta a questa domanda che tutti i bimbi – e forse anche molti adulti – almeno una volta nella vita si sono rivolti. Il fatto è che il Nevada – questo il suo vero nome, quando navigava – fu un cargo mercantile effettivamente carico di sale al momento del naufragio, sale proveniente dalle celebri saline del trapanese. E la cosa non stupisce in realtà più di tanto: l’umanità ha da sempre commerciato con il sale. Ha perfino intrapreso guerre, per il sale. Una sostanza che rappresentò il primo conservante naturale, dalle straordinarie proprietà batteriostatiche e spesso battericide. Anche per questo depositaria di un valore altissimo.

Ma oggi siamo di fronte alla “città dell’Esagono”, la bella Avola, oltre un miglio e mezzo al largo del suo litorale…e non chiedeteci di essere più precisi di così perché, trattandosi di mare, un pizzico di riservatezza è sempre cosa dovuta. Anche per rispetto delle genti del posto e per non incentivare una sconsiderata corsa al relitto (e al reperto!), come spesso purtroppo s’è verificato fino a un passato anche recente. A tal proposito va ricordato che il relitto è inserito in una lista di una quarantina di altri relitti di epoca moderna – di tutte le profondità, sia quelle da immersione ricreativa sia quelle da tech-divers – sotto tutela e monitoraggio da parte della Soprintendenza del Mare della regione Sicilia. Ciò la rende di fatto un’immersione particolarmente “delicata”, al pari di quelle che si possono compiere in area marina protetta, sebbene la zona del relitto si trovi fuori da quella di pertinenza della vicina AMP del Plemmirio.

In seguito alla collimazione del punto nave con vari allineamenti a terra, giungiamo su quella che si suppone la verticale del relitto. Ma la certezza che lo sia ce l’abbiamo solo quando finalmente la superficie cristallina del mare lascia intravedere nitido il cappio di un pedagno fisso che si trova circa 3 metri sotto il pelo dell’acqua. Bisogna tuffarsi in apnea, per ormeggiare la propria cima a quel cappio, con un passante doppio, in modo da poterlo poi liberare direttamente dall’imbarcazione al momento di andarcene. La cima di quel pedagno ci collega al relitto, come il filo dei nostri pensieri ci unisce all’oggetto del nostro desiderio. È la guida della nostra immaginazione. L’ascensore per il Nevada. E ora giù veloci!

In effetti, scendiamo tutti e tre più rapidi di un turbo-ascensore! Modello corallari, per intenderci. Tanto abbiamo alle spalle tutta un’estate d’immersioni, anche di quel tipo, siamo testati e settati a dovere. Quelli che parlano fighi direbbero «in configurazione “deep air”, aria profonda». Noi ci stiamo semplicemente divertendo da matti. Matti consapevoli, s’intende, e sempre più che presenti a noi stessi. Riusciamo perfino a ignorare un meraviglioso banco di barracuda che staziona tutto intorno alla cima, quando ancora il relitto non si vede, in pieno blu oltremare. Degnarli anche di un solo sguardo significherebbe rischiare di cedere alla tentazione di scattargli foto e ruberemmo minuti al già esiguo tempo di fondo programmato. Sfrecciamo fintamente indifferenti, li guarderemo meglio al ritorno. E anche loro si scostano appena, giusto per non farsi urtare, come sapessero che non passiamo di lì per loro. Picchiamo verso la bella poppa del mercantile – che finalmente s’era materializzato d’improvviso alla nostra vista in tutta la sua interezza – e già che ci siamo balziamo anche oltre la sua balaustra, fino all’elica, dove di solito una grande cernia attende i sub. Ma non eravamo il primo gruppo della giornata e la nostra padrona di casa facciamo appena in tempo a intravederla scomparire, indovinandone la sagoma occultarsi calma nel relitto. Siamo a – 52 m.

Nei 10 minuti che seguono facciamo in tempo a sorvolare, sempre in leggera progressiva risalita di quota, l’intero relitto. Da poppa a prua e ritorno. Anche per questo il senso del volo, o meglio del librarsi in giro qua e là senza peso, come astronauti in attività extra-veicolare attorno alla stazione spaziale internazionale, si fa così spiccato e ammaliante. Il silenzio di fondo e i suoni del respiro sono diventati quelli caratteristici del blu più remoto e contribuiscono all’atmosfera. La parte meglio conservata del relitto appare essere la poppa e il terzo posteriore della nave, con tutto lo sviluppo verticale del suo altissimo castello. Una specie di maestoso torrione. Il grande albero maestro, che si protende fino ai – 32 m di profondità, appare parzialmente abbattuto di lato, praticamente diagonale. Da metà scafo in avanti, prua compresa, il relitto è infatti contorto lungo il suo asse longitudinale, come se una gigantesca mano l’avesse arrotolato da prua a mo’ di cartina di caramella. E la diagonale dell’altissimo albero contribuisce anche a distanza a restituire l’immagine di una devastazione forse avvenuta molto tempo dopo l’affondamento risalente a fine gennaio del 1979 (si dice avvenuto per evento naturale, una tempesta; fatto sta che la sera prima la nave c’era e il giorno dopo non c’era più…). Testimonianze del posto descrivono infatti il relitto originariamente rimasto in assetto di navigazione e solo successivamente, pochi anni fa, ritrovato così piegato, in pratica con metà nave anteriore sbandata sul fianco di molti gradi. Un mistero la causa, anche se la consistenza e la quantità delle reti che oggi avvolgono molti punti dello scafo farebbero propendere per l’ipotesi che una terribile “strascicata” ci abbia messo del suo, complice la fatiscenza delle strutture indebolite dal tempo e i danni comunque subiti nell’affondamento.

E dunque il Nevada è così: bello e spettrale. In certi punti le reti sono talmente stratificate che gli incavi creati dalle loro stesse maglie fanno da tana a innumerevoli organismi viventi, incrostazioni biologiche d’ogni tipo, caratteristici – data la quota elevata, l’illuminazione prevalentemente scarsa e le correnti spesso presenti – del miglior coralligeno. Anthias anthias in quantità incalcolabili pervadono ogni decimetro cubo d’acqua intorno alle strutture del relitto e si stagliano contro lo sfondo scuro delle sue aperture, illuminandosi del loro rosa-arancio solo ai faretti delle videocamere. I “guardiani dei relitti”, li chiamano: mai soprannome fu più azzeccato, per degli esserini tanto discreti ed eleganti da preferire di vivere quasi esclusivamente in questi luoghi così perduti. Lo scafo ha diverse vie di penetrazione praticabili ma bisogna imporsi di dedicare loro l’immersione: non è il caso nostro, era previsto che dovessimo solo perlustrarlo “in esterni” ed è quanto facciamo. Insomma, o si entra in casa per sedersi a prendere un caffè o ci si aggira nei dintorni per una visita all’intera tenuta circostante. Si deve saper essere rigorosi.

Sono scoccati 11 minuti dal nostro tuffo in quello scenario misterioso e incantato ed è arrivato già il momento di lasciarlo. Un atto che ci sorprende così stregati da renderci il metterlo in pratica una cosa che finiamo per fare davvero a malincuore. Pur sapendo che avremmo avuto ancora un po’ di margine restando comunque nell’ambito di una decompressione tutto sommato modesta, preferiamo non sfruttarlo e avviarci alla lunga risalita. E poi ci sono i nostri amici barracuda che ci aspettano lassù, a metà strada, e stavolta qualche bello scatto non glielo toglie nessuno. Degli esemplari ci faranno compagnia fin quasi sotto la barca, dove ci concediamo alcuni minuti di respirazione in ossigeno puro, grazie alla stazione di O2 appositamente predisposta intorno ai – 5 m. L’avventura si conclude con un sorriso al pensiero che torna alle sbirciate che comunque abbiamo gettato furtivamente dentro i punti di accesso più bui, preceduti dal fascio della nostra lampada, mentre le domande del nostro “io bambino” prendevano il sopravvento: «dove sarà mai finito tutto il sale? Sarà mica stato quel carico, sciogliendosi nel mare, a mantenerlo finora così… salato?» (Grazie – di tutto e di più – ai colleghi del blu Emanuele Vitale, Roberto Bolelli, Chiara Scrigner)

Un’immersione da esperti

Sebbene a noi sia sembrata “facile” come immersione, al punto da apparire quasi “giocosa”, in realtà di solito non lo è. Siamo piuttosto stati fortunati noi stavolta per aver incontrato condizioni idilliache. Invece quelle prevalenti sul posto – così al largo dalla costa – impongono spesso correnti, moto ondoso e difficoltà di assistenza dalla superficie. Vi incide anche la mancanza di una boa di ormeggio fissa. Per lo stesso motivo, già l’esatta localizzazione – come abbiamo appunto descritto nell’articolo – può trasformarsi in una ricerca assai laboriosa. Poi va annotata la presenza sul relitto e nei suoi paraggi di quasi ogni genere di rete da pesca – talune difficilmente avvistabili – così come di tutti i sistemi di pesca sportiva, lunghe lenze, piombature e grossi ami compresi. Infine, ma non ultimo per importanza, il fattore profondità che, unitamente al trattarsi di un discreto relitto metallico (lunghezza circa 60 m) su fondale pianeggiante, non solo impone un profilo d’immersione quasi quadrato ma espone anche a una visione d’insieme dal forte impatto emotivo che per taluni – specie la prima volta – può rivelarsi fonte di particolare stress. Giova ricordare che i relitti profondi hanno dalla loro un record sinistro in fatto di episodi di “narcosi da azoto”, alias sindrome neuropsichica da alta profondità.

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