Situato nel mare a sud di Roma, 5 miglia a N-NW di Anzio, questo pezzo di storia vide le proprie sorti legate non a quelle del secondo conflitto mondiale, come ci si aspetterebbe, bensì a quelle della Grande Guerra. Oggi è uno dei relitti più ricchi di fascino della costa laziale.
A cura di Claudio Butteroni. Foto Valter Carrus. Disegni Alessandro Diotallevi.
Era un mercantile britannico, della ragguardevole stazza di oltre 5.500 tonnellate, per 128 metri di lunghezza e 16,5 metri di larghezza nel punto di maggior ampiezza.
Fu costruito nel 1894 della R. and W Hawthorn Leslie & Co. Ltd di New Castle. Fu ceduto nel medesimo anno a Turnbull, Martin & Co. – Scottish Shire Line Ltd di Londra e poi nuovamente nel 1915 alla Blue Star Line Ltd (Carlisle & Co) di Londra. In quest’occasione acquisì il nome di SS Brodness.
Era dotato di stive frigorifere e di caldaia a vapore a tripla espansione, ospitata in una sala macchine a quattro ponti, che produceva una potenza di 380 nhp in grado di spingere la nave, mediante un’unica elica, ad una velocità di crociera di 12 nodi. Venne utilizzato sulla tratta commerciale tra il nord Italia ed i porti dell’Africa mediterranea. In occasione della Grande Guerra, venne armato con un cannone da 88 mm a poppa. Trovò la sua inesorabile sorte la sera del 31 marzo 1917 quando – durante un trasferimento “in zavorra” verso Port Said – fu affondato dal sottomarino tedesco UC 38.
Appuntamento di buon ora al porto di Anzio, dove mi attende il caro amico Andrea Cammarone. Ho l’onore di essere accolto tra la ristrettissima cerchia dell’Associazione Subacquea Namaka Bluemotion. Giusto il tempo di montare le attrezzature sul molo del porto, poi tutti a bordo; una comoda imbarcazione Ocean Master, spinta da due potenti motori fuoribordo, ci condurrà sul punto di immersione.
Il consistente transito marittimo nella zona rende impossibile disporre di un punto stabile di ormeggio in quanto, seppure posizionato, viene sistematicamente tranciato dai natanti . E’ Andrea che, dopo aver sapientemente posizionato l’imbarcazione sulla perpendicolare del relitto, si tuffa nel blu munito di una particolare cavo di ormeggio auto-costruito: un reel di ragguardevoli dimensioni che ospita una robusta cima. Dobbiamo attendere ancora qualche minuto….quello che serve ad Andrea per raggiungere il fondo, agganciare la cima sul relitto ed aprire il bombolino d’aria che gonfia il pallone facendo così risalire verso la superficie il reel su cui ormeggiare l’imbarcazione.
Ora tutto è pronto e, dopo i consueti controlli pre-immersione, ci lasciamo catturare dal mondo del silenzio.
Se ci s’immerge quando i movimenti del mare hanno provveduto ad allontanare le scure acque del Tevere, è possibile scorgere la nave già da una profondità di 30 metri.
Dopo pochi minuti di discesa, raggiungiamo il relitto che giace su un fondale di circa 60 metri, orientato con la prua ad est e la poppa verso ovest.
Si prende contatto con le sovrastrutture attorno ai 47 metri in prossimità del cassero del quale sono rimaste soltanto le travature in acciaio, mentre il resto della struttura è andata persa. Andrea ha posizionato il cavo di ormeggio a centro nave, in posizione ottimale.
Guardando con attenzione attraverso il ponte di coperta oramai quasi totalmente marcito, si riesce a scorgere la toilette del Comandante con tanto di vasca da bagno a corredo.
Spostandosi verso prua s’incontrano i boccaporti di accesso alle stive, ed un grande bico di carico.
Nelle immediate vicinanze, la vista delle chiesette dei fanali delle luci di via di prua, non può che destare profondo un fremito.
La nave si presenta avvolta nel suo sudario fatto di reti e fili da pesca, ricca di sovrastrutture concrezionate tra cui spiccano i desueti fanali di navigazione a gas.
Spostandoci ancora verso la prua, si giunge in prossimità dei giganteschi argani per salpare le ancore. Qui sono ancora visibili le maglie della catena del ragguardevole diametro di 20/30 centimetri.
Sporgendoci fuori dal ponte possiamo notare la prua, dal taglio netto e verticale, la cui vista si perde nel fondale fangoso, e le gigantesche ancore Hall ancora nell’occhio di cubia.
Immediatamente dietro il cassero si trova invece l’accesso alla sala macchine, dove si arriva a toccare la massima profondità d’immersione di circa 60 metri. Proseguendo l’esplorazione del ponte, incontriamo il bico di carico di poppa e l’immancabile artiglieria posta a difesa del carico che giace a terra, divelta dal proprio basamento ad opera di una rete.
Sul lato destro, sempre in prossimità del cassero, sono evidenti i segni del siluramento che portò all’affondamento dell’imbarcazione.
Spesso l’immersione è caratterizzata da scarsa visibilità, ma non sono rare le occasioni in cui è possibile accompagnare le tappe di decompressione più profonde con la compagnia di una fantastica visione di insieme del relitto.
Giunto in prossimità della tappa dei sei metri, noto che Andrea ha posizionato in acqua il trapezio per la decompressione ed un paio di bombole; l’organizzazione e la professionalità di questo gruppo mi erano già note da tempo.
Risalito in barca, vedo i compagni di avventura riconquistare la superficie alla spicciolata, penalizzati nelle soste di decompressione dall’utilizzo del classico circuito aperto. Per il ritorno al porto di partenza ci attende un’oretta di navigazione a velocità di crociera. Abbiamo quindi tutto il tempo di cambiarci, rifocillarsi con qualcosa di caldo e godere delle prelibatezze culinarie di Michela; poi pronti per il rientro.
Mentre salpiamo la cima di ormeggio, mi tornano in mente i versi che resero celebre Edmond Haracourt: “Partire è un po’ morire rispetto a ciò che si ama, poiché lasciamo un po’ di noi stessi in ogni luogo ad ogni istante”.