È chiaro che il quesito riguarda non tanto gli espertoni né i vari guru della subacquea, quanto i novizi. Coloro che, proprio in questi giorni di inizio estate, si cimentano per la prima volta con l’applicazione pratica di quegli elementari principi di fisica che hanno appreso durante il corso base. Questo articolo è innanzitutto per loro (anche se ci auguriamo piaccia pure ai “professional”). Ma prima di formulare il quesito pubblico in oggetto, c’è bisogno d’una premessa.
Forse non tutti sanno che il grande genio del rinascimento, Leonardo Da Vinci, nella sua eclettica e variegata carriera di studioso e inventore, elaborò anche una versione di “marchingegno” per immergersi e respirare sott’acqua. Però in passato si è a lungo discusso sull’impiego reale di questo strumento, con forti dubbi sulle concrete possibilità che avrebbe potuto avere di assicurare sopravvivenza prolungata a chi ci si fosse all’epoca immerso.
Dopotutto, anche in generale di Leonardo si era creato un tempo il pregiudizio che fosse stato più visionario che ingegnere, cioè che le sue invenzioni avessero espresso un grande intuito ma con possibilità applicative pratiche spesso e volentieri molto scarse. Insomma, che si fosse trattato più d’un fantasioso teorico che di un vero progettista pratico.
Poi a qualcuno è venuta l’idea di provare a realizzare le macchine che aveva ideato sulla base dei disegni che lasciò, e addirittura con gli stessi materiali, per vedere se e come funzionassero. E le sorprese non mancarono, dimostrando quanto i dubbi sulla concretezza della sua opera d’ingegno fossero infondati: le sue macchine funzionavano quasi tutte!
Svariati anni or sono una serie di documentari inglesi portò in televisione anche tutta la spettacolarità di queste ricostruzioni e del processo d’indagine sui progetti, sui materiali, sulle tecniche e sui montaggi dell’epoca con i quali gli storici avevano fatto luce sul lavoro dello scienziato. E da allora è stato tutto un fiorire di musealizzazioni dinamiche e sedi espositive (nel nostro Paese le due principali sono a Venezia e a Firenze, ma ce ne sono perfino di itineranti, senza contare il Museo Nazionale della scienza e della tecnologia di Milano che di Leonardo Da Vinci porta nome e cognome) che hanno messo in mostra le mirabili riproduzioni leonardesche e quel che doveva essere stato il loro funzionamento.
Del resto, a pensarci meglio, non avrebbe dovuto destare troppa meraviglia che Leonardo ci avesse così tante volte azzeccato: viveva di questo, era un “professionista”, inventava – anche – per guadagno. La maggior parte della sua opera era stata quindi strettamente legata alle esigenze di reale funzionamento, a cominciare dalle macchine militari – per le quali è fin troppo ovvio che dovesse garantire efficacia, efficienza e precisione – fino all’idraulica, con sistemi di regimazione delle acque, macchine mosse dall’energia cinetica dell’acqua ecc, che ebbero moltissimi usi applicativi civili.
Ma la sorpresa viene nel constatare quanto volle occuparsi perfino del volo aereo, come della navigazione e… dell’immersione. Campi in cui è più difficile immaginare quanto egli stesso credesse fino in fondo nella reale funzionalità delle proprie invenzioni. Eppure… pensate che riguardo al volo, e malgrado un vero e proprio “elicottero a elica-vite” (celeberrimo anche questo suo disegno) non riuscisse a staccarsi da terra, restando così una pura sebbene sorprendente anticipazione dei moderni mezzi ad ala rotante, è certo che alcuni successi con mezzi “plananti” li ebbe, eccome. Ne fece le spese un suo assistente, Tommaso Masini, detto Zoroastro da Peretola, divenuto prova vivente dei successi ottenuti, dato che sopravvisse ad alcuni lanci sperimentali (oggi l’avremmo definito “pilota collaudatore”) con dei sistemi di volo planato analoghi al deltaplano o all’aliante: cosa che fruttò al progresso anche le testimonianze sulle tecniche ortopediche applicategli dallo stesso Leonardo – grande anatomista – per curarne le fratture ossee riportate!
E per l’immersione? Eccoci al punto. Il sistema progettato da Leonardo sembrava aver previsto tutto ciò che conta per ottenere lo scopo prefissato. A cominciare proprio dalla respirazione, che il genio aveva intuito non potesse svolgersi in un solo condotto, soggetto a non spurgare a sufficienza l’aria viziata emessa con la fase espiratoria. Un solo tubo insomma non avrebbe potuto scongiurare il ristagno dei gas respiratori. E infatti troviamo nel marchingegno di Leonardo due tubi, di cui uno di aspirazione dell’aria e l’altro di espulsione. Aveva ottenuto lo scopo dotandoli di duplice valvola, ciascuna ad apertura unidirezionale: con ogni atto respiratorio, l’inspirazione ne apriva una sola tenendo chiusa l’altra; al momento di espirare, si chiudeva viceversa la prima e l’aria da espellere apriva solo la seconda, per uscire imboccando così il tubo “di scarico”. In parole povere, l’aria non poteva tornare indietro: una volta aspirata da un lato, se ne poteva uscire solo dall’altro. Entrambe i tubi avevano le rispettive bocche costantemente fuori dall’acqua, saldamente fissate a un capace galleggiante circolare – tipo ciambella sovrastata da una cupoletta – concepito evidentemente per seguire ogni spostamento del subacqueo. Grande cura aveva riposto Leonardo nella composizione delle pareti delle tubazioni e soprattutto nei rispettivi punti di giunzione, tutte zone irrobustite addirittura con inserti a base di molle elicoidali di metallo temperato, onde garantire che – per quanto sufficientemente flessibili – in nessun frangente avessero a schiacciarsi e la pervietà all’aria fosse mantenuta sempre.